Tutt’altro che sport
di Francesca Lancini
Il dolore non esiste, il tempo è il tempo degli altri, la stanchezza è una compagna di viaggio, meglio iniziare a sopportare subito i suoi monologhi. Ho iniziato a giocare a tennis all’età di sette anni, per scherzo, al campo dell’oratorio di paese. A quattordici è diventato un lavoro: allenamento il mattino e il pomeriggio, la sera a scuola, a studiare ragioneria: un luogo nel quale hanno cercato di insegnarmi il significato delle parole dare e avere, anche se lo praticavo ogni giorno, in campo. Lo chiamavano rettangolo di gioco: per i miei compagni era una seconda casa. Il soggiorno era nell’area del fondocampo, i corridoi laterali conducevano al tinello e alla stanza da letto: oltre la rete c’era il vicino di casa che non avresti mai desiderato. Per me era diverso: il campo era la vetrina di un negozio nel quale ero esposta. Mi sentivo rinchiusa in uno spazio insonorizzato in cui le emozioni rimbombavano soltanto dentro di me. I passanti – gli allenatori, i genitori, gli amici, i fidanzati - si fermavano a guardare e dentro i loro occhi vi leggevo il giudizio. Erano diventate persone da conquistare con un’unica azione: la vittoria. Dare e avere. La prima sigaretta, la prima sbronza e le prime fughe, non sono tappe per gli sportivi, perché il senso del dovere è più forte di qualunque tentazione. La ribellione avveniva dentro di me, in uno spazio abitato da demoni ed eroi, che lottavano incessantemente tra loro nelle notti buie dell’anima. A volte provavo a tenere una cronaca di queste battaglie: frasi brevi, scritte con una calligrafia piccola e tremolante, perché nessuno avrebbe dovuto accorgersi dei desideri di una donna adolescente. Me ne vergognavo. Eppure, il tennis mi piaceva quando lo guardavo filtrato da uno schermo. La grazia di Steffi Graf lo rendeva uno sport perfetto, finché non entravo in campo e cercavo di imitare il movimento del suo dritto. Ero brava, ma non abbastanza, vincevo, ma non abbastanza, ero forte, ma non abbastanza per la mia schiena che mi faceva soffrire. E non funzionava come negli altri sport, dove il mister ti metteva in panchina e gli altri facevano gol, schiacciate e tiri da tre punti. Non avevo nessuno al quale aggrapparmi: ricacciavo il respiro nel porta racchette, cercando di raggiungere lo spogliatoio e liberare il pianto. I libri sono l’unico specchio nel quale ritrovavo la mia disperazione: quella che Salinger infuse in Holden Caulfield, quella che Nabokov nascose dentro l’animo di Humbert Humbert, quella che Fitzgerald donò a Jay Gatsby e alla sua Daisy. In ogni personaggio riconoscevo un’emozione che partecipava alla mia guerra interiore. Leggere mi aiutava a comprenderla, a dare un nome all’astrazione spaventosa di certe sensazioni, a trovare vie d’uscita, come l’ironia. Ho sempre creduto fosse un mio talento: afferrare un concetto e farne brillare la parte più nascosta. Molti anni più tardi ho scoperto che l’ironia è stata la mia più grande arma di difesa. Sono stati Flaiano, Arbasino, Bufalino, Busi e Gadda a insegnarmela.
Ho conosciuto l’amore con Márquez, la speranza con Orwell, l’ingiustizia con Stendhal, il tradimento con Kundera, la compassione con Borges, la solitudine con Virginia Woolf e il desiderio con Baudelaire.
Il tennis, i libri: i due protagonisti della mia adolescenza. Soltanto grazie a loro ho capito che la cultura non risiede in una formula matematica, nelle scritture contabili o nelle basi di statistica. Tutto ciò che conta è il sentimento: la forma più alta di conoscenza.
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