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Seconda tappa - Francesca Lancini

Sogni e incubi. Moda e scrittura. di Francesca Lancini

“Francesca, ti vogliono a Miami,” mi disse un giorno la booker dell’agenzia di moda per la quale lavoravo. Stavo per finire l’università e avevo due mesi liberi prima della discussione della tesi. “Perché no,” risposi. Una settimana più tardi arrivai Miami, in una sera di febbraio. Fu l’inizio di un incubo che, presto, si trasformò in un sogno. La villetta a due piani su Alton road, costeggiava il Miami beach Golf Club, un luogo popolato da signori che atterravano sul manto verde con il jet privato e signore che sorseggiavano cocktail al fianco di cagnolini griffati di piccola taglia. Al mio arrivo trovai il cast al completo di ciò che aveva tutta l’aria di un reality show: otto modelle con altrettanti problemi esistenziali, che si litigavano mele verdi e ragazzi palestrati. Ognuna, a turno, mi poneva un problema che sembrava insormontabile: applicare o meno uno shampoo schiarente su capelli danneggiati, pianificare una settimana di uscite a cena nei migliori ristoranti, riducendo al minimo le calorie, dare retta a quel fotografo convinto che la coda di cavallo mettesse in risalto le orecchie leggermente a sventola. “Cinque anni di lavoro e nessuno me l’aveva mai detto, ti rendi conto?” diceva Anna, una brasiliana di una bellezza indicibile. Mi osservavano come fossi un’aliena o un’aspirante omicida, perché trascorrevo i miei pomeriggi all’ombra della sala da pranzo, a scrivere o a leggere. Non spostavo mai lo sguardo dallo schermo o dalla pagina, tranne che per mangiare, fare la spesa o lavorare. Anna, un giorno, mi chiese se avessi bisogno di un abbraccio. Devo aver suscitato pena dopo aver rifiutato inviti a feste, partite di beach volley e aperitivi in terrazze panoramiche. Fui persino accusata di supponenza, anche se la mia era solo paura. Avevo vissuto tutta la vita in un campo da tennis, protetta dalla quotidianità rassicurante dei gesti meccanici: alzarsi allenarsi, frequentare la scuola, andare a dormire. Non ero pronta a farmi sorprendere dalla vita. Il mondo, là fuori, mi spaventava. Così iniziai a scrivere ciò che vedevo e ascoltavo. Le vite delle persone intorno a me si animarono fino a diventare avventure romanzesche. Ogni lamento conteneva uno spunto per un paragrafo, ogni tragedia scorreva sotto la lente dell’ironia. E così, alla fine di quell’avventura americana, nacque un racconto. Lo spedii a un caro amico con la timidezza di chi credeva di aver gettato via il tempo. Invece mi disse: “Non è solo un racconto, è il capitolo di un libro.” Senza tacchi nacque così, come un romanzo di formazione: quella di una ragazza che stava cercando la propria strada. Più scrivevo e più intravedevo la via d’uscita da quel mondo fatto di pose, ammiccamenti, misure, insulti travestiti da complimenti, superficialità. La creatività risiede in altre stanze, nelle quali si scelgono tessuti, si inventano mondi femminili che si imprimono nella storia. Tutto il resto è manovalanza di lusso.


Eppure, sono grata alle esperienze che ho vissuto: dentro di me c’è un catalogo di sguardi pieni di empatia, situazioni tragicomiche, ed eventi illuminanti, che mi rallegrano ogni volta in cui tornano a farmi visita. Persone che hanno compiuto un tratto di strada con me e mi hanno dedicato le loro cure, i loro sorrisi, la loro stima. Ed è grazie a quel tempo luminoso e buio al contempo, che ho trovato la scrittura come forma per esprimermi e per comprendermi. La scoperta di una parola, la chiusura di un capitolo, la musicalità di una frase, mi hanno salvato la vita. È stato Kurt Vonnegut a definire al meglio questo processo, in un libro dove sono racchiuse le conversazioni con un altro scrittore: Lee Stringer. Vonnegut sostiene che la scrittura non sia certo un modo per fare soldi, ma “per prendersi cura delle proprie nevrosi, migliorare se stessi e quando si compie, è come stringere la mano a Dio.”

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