Le armi delle donne
di Francesca Lancini
Viola Vento, la voce narrante del mio secondo romanzo, Armi di famiglia, torna a casa per un solo motivo: scoprire perché Olivia, la sorella più piccola, abbia convocato tutti i membri della famiglia in un unico luogo. I Vento si ritrovano così a condividere gli spazi di una grande casa dopo molto tempo: è il pretesto per far esplodere le dinamiche di una famiglia di sole donne, che produce magnifici fucili da caccia. Cosa scoprirà Viola? Nientemeno che se stessa. Non è forse questo lo scopo di ogni viaggio?
L’idea di scrivere un romanzo tragicomico su una famiglia di donne che vende armi, è nata dall’idea di raccontare un’apparente contraddizione in termini: la donna e l’arma. La donna dà la vita, l’arma la toglie. Dietro a questo assunto se ne nasconde un altro: il potere assoluto, quello del sovrano. La donna ha il potere di vita o di morte. Non a caso, Viola scopre di essere incinta proprio durante il soggiorno e vive un conflitto lacerante. Il tema del libro però non è la maternità, è un’indagine sulla forza costruttrice e distruttrice della donna, in costante conflitto con l’uomo, la società, la specie. Le donne della famiglia Vento credono di avere il potere di cambiare gli uomini, il sistema, il destino, ma non hanno capito il segreto per farlo: indagare se stesse.
Ogni filosofia, religione o disciplina lo dice chiaramente: se cambi tu, cambia il mondo intorno a te. Ogni persona che incontriamo, ogni evento che ci accade, è uno specchio dentro il quale siamo chiamati a scoprire una parte di noi. Qualcuno direbbe che non vi sia nulla di più difficile che tollerare se stessi: guardare il volto della propria ombra è il primo passo. È la partenza, è quel biglietto che Viola si ritrova tra le mani. E la pone di fronte alla parte di sé che non vuole vedere: le origini. La genesi del dramma. La tentazione di rifiutare, tornare indietro, abbandonare il campo è comune, c’è chi scaccia l’ombra e chi la integra, c’è chi la traveste e chi la accoglie. È la sfida della vita: contare le maschere che usiamo per compensare le paure e provare a gettarle via, quando il coraggio di mostrarsi adulti si è ben radicato.
Il ritorno a casa di Viola non è solo il percorso di Ulisse verso Itaca, è il viaggio dell’eroe di Campbell, il processo di individuazione di Jung. Solo intraprendendo questo tipo di viaggio, il potere della donna (e dell’uomo) si trasforma in libertà: la libertà di comprendere ciò che siamo destinati a diventare sin dal principio.
Scrivere e creare
di Francesca Lancini
Ho giocato a tennis per tutta l’adolescenza, ho lavorato nella moda, in televisione, ho viaggiato, scritto racconti, romanzi. Negli ultimi anni mi è capitato di pensare: se dovessi rimanere incinta?
Avvertivo un terrore che si accomunava a quello di Marina Abramovic, Flannery O’Connor, Gertrude Stein, Hannah Arendt, Simone de Beauvoir: donne che hanno creduto di dover investire la loro intera esistenza nella ricerca della creatività. Donne convinte che la maternità le avrebbe frenate, limitate, distratte. Non la pensavano così, però, molte scrittrici che ammiro: Toni Morrison, Marilynne Robinson, Natalia Ginzburg, Zadie Smith. Mi sono addentrata nell’argomento quando ho notato quelle due linee rosse solcare lo spazio bianco del test di gravidanza, una sera di gennaio del 2018. In preda al panico, ho letto di artiste che avvertivano dentro di loro il presagio del fallimento mescolato al senso di colpa. Altre che, della maternità, intravedevano soltanto limiti e svantaggi.
Poi, il 29 ottobre di quell’anno, è nato mio figlio. Solo in quei giorni (e nei mille a venire) ho compreso il dramma di chi ne desidera uno e non riesce ad averlo, ma ho compreso ancora meglio il dramma di quelle artiste che non lo annoveravano nelle possibilità: perché hanno perduto un’occasione.
Credere che un figlio possa sottrarre potenza al proprio lavoro creativo significa non avere occhi altro che per se stessi. E quando ci si concentra troppo su di sé, si finisce per scrivere sempre le stesse cose, dipingere le stesse cose, pensare le stesse cose. Si rimane al piano terra nell’edificio dell’evoluzione. Il piano dell’ego che si nutre solo di se stesso.
La leggenda che sostiene come il controllo e la tranquillità siano il fondamento di un buon lavoro è fuorviante: tutti i grandi atti creativi del nostro secolo arrivano da forme di distrazione, follia, sogno e tragedia. Da Archimede a Einstein. Da quegli scrittori che hanno espresso il loro meglio dietro le sbarre di una prigione o in situazioni di estrema gioia o agonia. La storia ci insegna che la comodità non è creativa: la genialità si manifesta quando siamo spinti fuori dal nostro rifugio. Avere un figlio implica questo spostamento. L’uno diventa due: dobbiamo condividere il centro del nostro mondo. Dobbiamo imparare a osservare, comprendere, attendere.
Credo di non aver mai scritto frasi migliori dell’anno nel quale mio figlio se ne stava accoccolato accanto a me. Privata del sonno, del tempo, delle energie, ho riscritto parte del romanzo che avevo concluso prima che lui nascesse. E non avrei potuto svolgere lavoro migliore, perché ho compreso che il più grande atto creativo che potessi compiere l’avevo già fatto, il resto sarebbe stata solo un’emanazione di quella bellezza.
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